La VERGOGNA. Ansia per l'essere visto.
René Magritte: Gli Amanti (1928). Zeisler Collection, New York.
“Il signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: “Dove sei?” L'uomo Rispose: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”. Genesi 3, 8-24.
Tutti conosciamo le emozioni che si provano quando siamo guardati. Essere visti dagli altri può generare sensazioni piacevoli o sgradevoli. Può portare a sentimenti di orgoglio per l'ammirazione suscitata ma può anche generare imbarazzo e vergogna.
Quest'ultima può essere definita come un affetto di avversione e condanna verso il proprio sé che si attiva quando certi “fatti” che riguardano noi stessi sono visti da un altro, o dall'anticipazione nella fantasia che ciò avvenga (Morrison, 2016).
Il sentimento di vergogna presuppone sempre la presenza, reale o fantasticata, di un altro significativo testimone degli errori del soggetto o del suo scarso valore. Pertanto è considerata una forma di “angoscia nell'intersoggettività” capace di generare potenti difese come il desiderio di “scomparire” o di nascondersi alla vista dell'altro, portando alla costruzione di quelli che Steiner (2003) definisce i “rifugi della mente”.
Bonomi, su questo tema, sottolinea che il senso di vergogna rimanda alla fantasia di essere “trasparenti”, come se lo sguardo altrui potesse vederci dentro e ricorda che in greco arcaico per dire “guardare” si dice “soffiare dentro” (Bonomi, 2016 p.169).
Ritengo che l' “ansia per l'essere visto” abbia grande rilevanza nella psicoterapia e sia una componente fondamentale della consapevolezza di sé, sia nello sviluppo della personalità che chiamiamo normale, sia nelle sue derive patologie. A tale proposito Bonomi (2016) scrive: “La vergogna è la linea di confine della nostra capacità di reagire alle esperienze traumatiche. Se riusciamo a entrare in contatto con il sentimento della vergogna, riusciamo a sottrarci al potere del trauma, se invece non riusciamo a raggiungere l'area della vergogna, allora il trauma resta padrone del campo (p. 165)”.
Storicamente, già Freud negli “Studi sull'Isteria” (1885) considerava la vergogna come un evento traumatico attivatore di sintomi. Più tardi nei “Tre saggi sulla teoria sessuale” (1904) la considererà una difesa contro lo sguardo dell'altro e contro le pulsioni legate all'esibizionismo e al voyerismo.
Ma bisognerà attendere gli anni settanta e la pubblicazione dei lavori di Khout (1971) e della Lewis (1971) per inaugurare un proficuo dibattito sul ruolo della vergogna nelle funzioni di autoregolazione e nello sviluppo di patologie narcisistiche.
Per Khout la vergogna, da un punto di vista evolutivo, interviene nella regolazione della comunicazione emotiva tra l'adulto e il bambino. Quando il piccolo esibisce grandiosità, gioia, esaltazione e la madre (o chi se ne prende cura) non si sintonizza con questi stati emotivi, quando cioè il bambino non incontra il “luccichio negli occhi della madre” (Khout, 1971 p.117), si produce nel piccolo un'improvvisa riduzione dell'ipereccitazione che genera sorpresa e umiliazione.
Secondo l'autore è proprio l'interiorizzazione di questa relazione oggettuale che sarebbe alla base della vergogna non patologica, in grado quindi di favorire l'amplificazione della consapevolezza del proprio sé. Insistendo sulla centralità della vergogna nello sviluppo individuale, Khout (1971) scrive: “sottili segnali di vergogna giocano un ruolo fondamentale nel mantenere un equilibrio narcisistico omeostatico”.
Anche per autori come Schore (2003) la vergogna svolge funzioni di regolazione e riparazione del sé. Tutte le volte che il bambino non è in grado di inibire la propria eccitazione o i propri tentativi esplorativi, spiega l'autore, la vergogna protegge il sé nascente comunicando all'altro il bisogno di ripristinare una relazione, di modificare ad esempio la qualità dello scambio intersoggettivo, favorendo così la socializzazione.
Tuttavia, quando la vergogna è intensa e vissuta come traumatica, diviene parte integrante della svalutazione del proprio sé, tipica dei disturbi narcisistici di personalità.
In questi soggetti, in cui il codice narcisistico pone il valore personale al di sopra di ogni altra considerazione, la vergogna deriva da un ampio divario tra il Sé ideale (ciò che il soggetto desidera essere) e il Sé reale (ciò di cui il soggetto fa esperienza, Morrison, 2016).
La potente autocritica che ne deriva attiva quello che la Lewis (1971) ha chiamato il “ciclo della vergogna-rabbia”, tipico dei pazienti narcisisti. In questa sequenza la vergogna produce ritiro sociale e rabbia vendicativa contro l'altro, il testimone cioè della presunta inferiorità personale e responsabile del senso di umiliazione. Questa aggressione produce senso di colpa che a sua volta porta nuovamente a ritirarsi nella passività e nella vergogna, generando così una nuova fase di aggressività verso l'altro.
Disattivare la ciclicità che lega la vergogna alla distruttività diviene allora uno dei compiti fondamentale dei terapeuti che lavorano con pazienti narcisisti.
Dal punto di vista psicoanalitico, l'azione terapeutica elettiva in queste circostanze, si basa su un intenso sostegno emozionale nel quale il terapeuta rispecchia gli stati affettivi del paziente, facendolo sentire accettato e tranquillizzato dalle proprie angosce narcisistiche (Bleichmar, 1998).
In altre parole, si insiste sul fatto che l'accettazione del proprio sé difettoso sia l'antidoto all'esperienza della vergogna.
Al riguardo penso sia utile citare il pensiero di Morrison, tra i maggiori esperti nella clinica dei disturbi narcisistici correlati alla vergogna.
Secondo l'autore la sofferenza viene mitigata quando il paziente, una volta abbandonate le tipiche difese volte a nascondere la vergogna, riesce a ripensare le proprie aspirazioni narcisistiche in termini più flessibili e realizzabili. Su questo tema commenta: “Le aspirazioni narcisistiche, gli scopi del sé, generalmente si spostano lungo due poli: la ricerca di una totale autonomia e indipendenza e l'aspirazione a essere degni di attaccamento a un altro idealizzato (…) la vergogna è il risultato del fallimento nel raggiungere questi ideali” (Morrison, 2016 p.87).
Sarà quindi necessario comprendere il conflitto narcisistico che abita la mente del soggetto e identificare la sua tendenza a stabilire relazioni interpersonali in cui coesistono bisogni di autonomia e di fusione.
Seguendo questa linea terapeutica, l'atteggiamento tollerante dell'analista, improntato all'accettazione e all'empatia, può favorire il contenimento dell'ambivalenza riguardo al proprio sé, riducendo così la presenza tossica della vergogna.
Bibliografia.
Bleichmar, H. (1997). Psicoterapia Psicoanalitica. Astrolabio, Roma (2008).
Bonomi, C. (2016). La maschera, l'occhio e lo specchio. Breve topografia della vergogna, in: Vergogna l'emozione dimenticata, a cura di M.E. Novelli e G. Pallai. Edizioni Universitarie Romane, Roma.
Freud, S. (1895). Studi sull'isteria. Opere vol. 1. Bollati Boringhieri, Torino.
Freud, S. (1904). Tre saggi sulla teoria sessuale. Opere vol. 5. Bollati Boringhieri, Torino.
Khout, H. (1971). Narcisismo e analisi del Sé. Bollati Boringhieri, Torino (2006).
Lewis, H.B. (1971). Shame and Guilt in neurosis. International Univesity Press, New York.
Morrison, A.P. (2006). La vergogna dell'analista, in: Vergogna l'emozione dimenticata, a cura di M.E. Novelli e G. Pallai. Edizioni Universitarie Romane, Roma.
Schore, A.N. (2003). La regolazione degli affetti e la riparazione del sé. Astrolabio, Roma (2008).
Steiner, J. (2003). I rifugi della mente. Bollati Boringhieri, Torino.
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