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LE FUNZIONI DELL' AGGRESSIVITÀ


PSICOLO FIRENZE Dott. Cosimo Santi | Le funzioni dell'aggressività

La rabbia è uno dei primi modi in cui impariamo a gestire l'ansia (…) Il suo scopo presumibilmente non è quello di permetterci di sfuggire a situazioni minacciose o nocive, ma di distruggerle o allontanarle.

L'aggressività viene comunemente definita come quella serie di comportamenti volti ad arrecare un danno, fisico o psicologico, ad altri individui, indipendentemente dal raggiungimento o meno di un obiettivo (Salerno e Giuliano, 2012).

Siamo abituati a riflettere sull'aggressività umana enfatizzandone gli aspetti distruttivi. In genere quando se ne discute lo si fa mettendoci nei panni di un soggetto che subisce gli attacchi di qualcun altro sottolineando gli aspetti patologici di quest'ultimo.

Propongo invece di spostare il focus della nostra attenzione su chi agisce l'aggressività in modo da capire quali siano i significati che quel soggetto le attribuisce, quali motivazioni l'attivino e quali funzioni svolga.

La prima questione da affrontare per comprendere l'aggressività riguarda gli aspetti motivazionali in grado di attivarla e sostenerla.

La ricerca psicologica ha ormai da tempo chiarito che la causa più diffusa in grado di scatenare una reazione aggressiva è la sofferenza (Dollard et al, 1939; Berkowitz, 1969). Tale stato di frustrazione, cronica o transitoria, può rientrare nell'ordine biologico oppure in quello simbolico.

Nel primo ordine vengono rubricate quelle situazioni di base per la vita, dove l'aggressività umana ha un carattere molto vicino a quella animale.

La reazione aggressiva si attiva in circostanze che minacciano la propria sopravvivenza o la propria integrità fisica, come nel caso della fame. Il famoso etologo Konrad Lorenz (1962) fa notare che l'espressione di Darwin “lotta per l'esistenza” è talvolta erroneamente interpretata come conflitto fra specie diverse. La lotta intesa da Darwin era la competizione fra membri della stessa specie. In questi casi l'aggressività svolge la funzione di garantire la sopravvivenza dell'individuo e della sua specie.

Nel secondo ordine rientrano le condizioni di sofferenza psichica come nei casi di umiliazione narcisistica, di senso di colpa o di fantasie persecutorie (Bleichmar, 2008).

In tutti questi casi, coerentemente con l'affermazione di Sullivan (1956), l'aggressività svolge la funzione di difesa psicologica. Tramite l'aggressività l'individuo riesce cioè a ristrutturare la rappresentazione di Sé e dell'altro, restituendo al soggetto che l'agisce una determinata identità.

Questo è ciò che accade quando l'autostima si inscrive in un sistema narcisistico in cui prevale la svalutazione di Sé. L'aggressività può divenire il mezzo per assumere l'identità di soggetto potente e contrastare difensivamente l'umiliazione e il senso di inferiorità. In questi casi l'aggressività narcisistica è un tentativo, da una parte, di modificare il ruolo che l'altro ricopre nella vita del soggetto, dall'altra di ristabilire un senso di valore personale (Kohut, 1972).

Quando invece la sofferenza è generata da potenti sensi di colpa, presumibilmente legati a un'infrazione che il soggetto ritiene di aver commesso, l'aggressività viene rivolta contro il proprio Sé.

Sono questi i casi che Freud (1924) definì “masochismo morale”, indicando la condizione in cui una persona tenta di ridurre il proprio senso di colpa inconscio per mezzo dell'autodanneggiamento.

L'autopunizione ristabilisce il senso di possedere un'identità di persona buona. Il castigo inferto a se stesso diventa la riprova che egli disapprova davvero la sua condotta o la sua fantasia codificata come negativa (Bleichmar 2008).

Talvolta le persone provano intense angosce di persecuzione e l'aggressività permette loro di rappresentarsi come se fossero più forti o addirittura di invertire le rappresentazioni di chi minaccia e di chi è minacciato (Fonagy et al. 1993).

Bion (1962) definiva “terrore senza nome” quelle condizione di estrema angoscia in cui il soggetto ha la sensazione di essere sopraffatto da un pericolo non identificabile. La minaccia non ha né un luogo di provenienza né una forma precisa e il soggetto sente di stare per morire o di perdere il controllo della propria mente.

In questi casi il soggetto riesce in un secondo momento a immaginare che tale pericolo provenga da una figura esterna. Attribuire a un altro la causa del pericolo permette di ottenere un senso di maggiore controllo: un persecutore può essere evitato, sedotto o aggredito.

Così l'aggressività viene usata difensivamente, permettendo di sottrarsi a una condizione di totale vulnerabilità e ristrutturando temporaneamente la rappresentazione che il soggetto ha di sé.

Vi sono infine casi in cui il piacere, piuttosto che la sofferenza, diventa il punto di ingresso per il circuito delle reazioni aggressive.

In questi soggetti l'aggressività difensiva, usato cioè per eliminare la condizione di sofferenza psichica, viene in un secondo momento associata con il piacere sessuale o con il piacere narcisistico, diventato fonte di godimento, diventando cioè sadismo.

Differentemente dall'aggressività che protegge il soggetto, quella sadica riceve la propria energia dalla ricerca del piacere e tende a consolidarsi, divenendo un tratto stabile della personalità (Stolorow, 1975). Una volta convertita in fonte di piacere, l'aggressività non sarà più scatenata da una condizione di sofferenza ma dal ricordo di un piacere che il soggetto intende riprovare.

Nella psicoterapia diviene fondamentale la distinzione tra un'aggressività fondamentalmente difensiva e una sadica.

Mentre nel primo caso l'obiettivo sarà la comprensione e la progressiva attenuazione delle angosce che sostengono l'aggressività, nel secondo caso sarà l'elaborazione del piacere che all'aggressività stessa si collega.

Fino a quando il piacere non si trasformerà in dispiacere per un'altra parte della psiche del soggetto (disapprovazione del Super-Io o identificazione con il dolore dell'altro) l'aggressività sadica non sarà abbandonata (Bleichmar, 2008).

Il lavoro terapeutico deve quindi partire dal riconoscimento delle molteplici determinanti capaci di promuovere l'aggressività.

In sintesi il percorso che porta a disattivare le condotte aggressive deve passare attraverso due fasi:

  • Riconoscimento, da parte del paziente, delle forme mascherate di aggressività che non sono accettate dalla sua coscienza. In particolare le condizioni in cui è l'altro ad essere considerato aggressivo (identificazione proiettiva) e quelle in cui il soggetto usa la negazione per evitare la propria responsabilità e le conseguenze che ne derivano.

  • Riconoscimento delle condizioni che fanno da preludio alle condotte aggressive. Ad esempio la paura, la frustrazione narcisistica, i sensi di colpa, le angosce e le minacce al suo spazio psichico.

Tutte queste circostanze sottendono alla sequenza sofferenza/aggressività e la loro analisi permette al paziente di cogliere nel presente i collegamenti fra trauma, angoscia e aggressività.

Tale lavoro consente nel tempo di condurre il soggetto a una migliore capacità di contenimento, a riconoscere i propri comportamenti distruttivi e le relative conseguenze negative per se stesso e per gli altri.

Bibliografia.

Berkowitz, L. (1969). Roots of Aggression. A Re-examination of the Frustration-aggression Hypothesis, New York: Atherton.

Bion, W.R. (1962). Melanie Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi. Roma: Astrolabio, 1995.

Bleichmar, H. (2008). Psicoterapia Psicoanalitica, Roma: Astrolabio.

Dollard, J. et al. (1939). Frustration and aggression. New Haven: Yale University Press.

Fonagy, P. et al. (1993). L'aggressività e il Sé, in: Attaccamento e funzione riflessiva. Milano: Cortina, 2001.

Freud, S. (1924). Il problema economico del masochismo, in: Opere vol.10. Torino: Boringhieri.

Kohut, H. (1972). Pensieri sul narcisismo e sulla rabbia narcisistica, in: La ricerca di Sé. Torino: Boringhieri, 1982.

Lorenz, K. (1962). L'aggressività. Milano: Il saggiatore, 2015.

Salerno A., Giuliano S. (2012). La violenza indicibile, Milano: Franco Angeli.

Sullivan H. S. (1956). Studi clinici. Milano: Feltrinelli, 1971

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